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Giallo Materano
"Le voci della Pietra"






  • 5° -Il geometra sembrava un po’ a disagio, quando si rividero la mattina dopo. Il cielo era grigio, fermo, e la cappa di calore pesava come un sudario sulle pietre silenziose. L’ometto si asciugava continuamente la fronte, e gli occhi neri dardeggiavano attorno senza mai soffermarsi su qualcosa in particolare. In silenzio condusse l’architetto e un manovale armato di piccone fino alla porta di legno chiusa, poi si fermò e rivolse lo sguardo al professionista. Archite’, disse, voi ieri mi avete chiesto di prendere notizie sull’uomo che abitava qua. Io ho chiesto in giro, e qualcosa mi hanno detto. Volete sentire prima o dopo? L’architetto lo fissò perplesso. Non capiva il senso della domanda. Che volete dire, geometra? Era una curiosità, non è che conti rispetto al lavoro che dobbiamo fare. Vediamo prima l’interno, poi magari mi dite. Ma come mai avete portato il muratore, con noi? Il geometra fece una smorfia imbarazzata. Vi ho detto che il proprietario non voleva vendere, disse. Non so quante volte gli abbiamo fatto offerte, e lui ha sempre detto di no. poi all’improvviso è morto, anzi: lo hanno trovato morto. Chissà da quanto tempo era successo, era praticamente diventato una mummia; ma siccome non frequentava nessuno, nessuno se n’era accorto. Insomma, ha lasciato la casa al Comune, e il Comune ha subito venduto alla !14 società. Io conosco la pianta catastale, ma qua dentro non sono mai entrato. La porta è stata chiusa, ma le chiavi non ci stanno da nessuna parte; Peppino col piccone, qua, serve per aprire. Fece un cenno al manovale che annuì, si avvicinò alla porta e aprì con un paio di colpi alla serratura arrugginita. Entrarono cercando di abituare gli occhi all’oscurità. Le stanze davano una nell’altra, pochissimi i mobili, di legno pesante e antico. Qualche vecchio giornale. Ragnatele. Odore di vecchio, un tanfo di muffa che copriva il rancido di qualche alimento andato a male. L’architetto quasi istantaneamente sentì ronzare nelle orecchie il mormorio che lo aveva accompagnato il giorno prima. Si passò una mano davanti agli occhi e sospirò. Poi disse al geometra: mi racconti di quest’uomo. Mi racconti adesso. Quando la vidi tornare a casa mi successe qualcosa nel cuore. Avevo sopportato tutto; ho sopportato tutto. L’amore prima, l’inerzia e la paura poi mi avevano anestetizzato ogni volontà, ammesso che ne abbia avuta mai: ma vedere mia figlia, l’unica cosa bella della mia vita, l’unica dolcezza, l’unica tenerezza che mi era stata riservata ridotta a un animale senza futuro mi fece trovare una forza che non sapevo di avere. Ci avevo sperato, quando tu stesso decidesti che doveva avere una sua vita, un marito, una casa. Che volevi un nipote, qualcuno che desse un futuro a te stesso dopo di te. Avevo sperato che le toccasse un diverso destino, che avesse un’esistenza lontano dalle tue terribili mani e dalla follia che ti aveva invaso. E invece era di nuovo là, con l’anima spezzata, tra queste mura. E tu di nuovo col tuo buio su di lei. !15 Attesi la sera in cui sapevo che saresti andato a giocare a carte con gli unici due amici che avevi, meglio le uniche due persone che ancora ti frequentavano. Forse portatori dello stesso sentimento di paura, se non di terrore. Sapevo che avresti bevuto e che avresti tirato fino all’alba. Attesi con freddezza, attenta a non dare a nessun mio gesto una connotazione nuova, diversa; consapevole della tua diabolica capacità di annusare l’aria, di riconoscere le emozioni come fossero un sapore, un mefitico odore. Raccolsi le poche cose necessarie, le misi in una borsa. Pensai che saremmo andate da mio fratello, lontano, anche se non lo vedevo da anni. Che da là saremmo andate ancora più lontano, in America, in Africa; che avremmo provato a vedere se c’era spazio per la vita, nel nostro tempo. Per lei, non per me. Quando, appena fuori la porta, è arrivato il colpo dietro la mia testa ho avuto solo un attimo per pensare in che cosa mi fossi tradita, da che cosa avessi capito. Papà? Lo sai, papà? Io me lo aspettavo. Non ho mai pensato che ci saremmo riuscite. Lo avevo visto, che guardavi le chiavi dello sgabuzzino appese sull’altro chiodo, a pochi centimetri di distanza da quello solito. Che da quello, in un lampo, avevi capito che la mamma aveva cercato la borsa grande, l’unica cosa che poteva volere là dentro. Lo sai, io e te ci assomigliamo. Non solo negli occhi, anche nei pensieri. E perché non gliel’ho detto? Facile, papà: perché volevo che ci provasse. Perché se avesse saputo che c’era una possibilità, una sola, che tu ti accorgessi di qualcosa, non l’avrebbe mai fatto. E’ vile, la mamma, tu lo sai, papà. Non ha nessun coraggio. !16 Dovevamo provarci. Lo capisci, papà? Almeno provarci. Peccato.

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