Dmitri Slobodeniouk: Brahms Concerto n. 1 per pianoforte, Nelson Goerner pianoforte

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Dmitri Slobodeniouk direttore
    Nelson Goerner pianoforte

     

    Johannes Brahms (1833-1897)
    Concerto n. 1 in re minore op. 15
    per pianoforte e orchestra

    Johannes Brahms
    Concerto n. 1 in re minore op. 15
    per pianoforte e orchestra
    Maestoso - Poco più moderato - Tempo I
    Adagio
    Rondò. Allegro non troppo - Meno mosso - Più animato - Tempo I

     

     

    Vie nuove

    Nell’agosto del 1853 il ventenne Johannes Brahms, zaino in spalla, arrivava nella valle del Reno, incontrando per la prima volta i luoghi e le città di cui tanto aveva sentito parlare. Ma la meta del suo viaggio non era solo turistico-culturale, perchè a Dusseldorf, a fine settembre, lo attendevano i coniugi Schumann. Per Brahms era un’occasione da non perdere: il compositore e la pianista che più venerava gli avevano concesso un appuntamento. L’incontro suscitò da subito un’affinità elettiva. Brahms non si era ancora nemmeno tolto il cappotto che già scalpitava per andare al pianoforte, e quando eseguì la sua Sonata in do maggiore gli Schumann capirono immediatamente di essere di fronte a un genio.

    Quel primo incontro era destinato a divenire memorabile; Robert Schumann solo un mese dopo, il 28 ottobre 1853, celebro con toni leggendari le qualità artistiche di Brahms sulla ≪Neue Zeitschrift fur Musik≫ in un articolo intitolato “Vie nuove”: un biglietto da visita roboante per un giovane di vent’anni che era arrivato a Dusseldorf come un perfetto sconosciuto.

    [...] Ed eccolo qui: un giovane alla cui culla hanno vegliato Grazie ed Eroi. Il suo nome è Johannes Brahms, è venuto da Amburgo, dove creava in silenziosa oscurità, ma istruito da un insegnante ottimo ed entusiasta alle più difficili forme dell’arte, e poco prima del suo arrivo egli mi era stato raccomandato da un noto e venerato Maestro [Joseph Joachim]. Anche esteriormente egli presenta tutti quei segni che ci annunciano: ecco un eletto! Seduto al pianoforte, egli iniziò a svelarci regioni meravigliose. Noi venivamo attirati in cerchi sempre più magici.

    Si aggiunga un modo di suonare straordinariamente geniale, che del pianoforte faceva un’orchestra di voci ora lamentose ora esultanti di gioia. Erano Sonate o piuttosto Sinfonie velate. [...] E sembrava poi che egli, passando come un fiume scrosciante, unificasse tutte queste sorgenti in un’unica cascata, le onde precipiti coronate da un placido arcobaleno e accompagnate sulla riva da svolazzanti farfalle e da canti di usignoli. Se egli abbasserà la sua bacchetta magica là dove le potenze delle masse corali e orchestrali gli potranno concedere le proprie forze, noi potremo attenderci di scoprire paesaggi ancor più meravigliosi nei segreti del mondo degli spiriti. [...]

    (da Robert Schumann, Gli scritti critici, Milano, Ricordi - LIM, 1991, Vol. II,
    pp. 1093-1094)

     

    Una genesi travagliata

    Fu forse proprio l’entusiasmo di Schumann a spingere Brahms a scrivere il suo primo concerto per pianoforte e orchestra. Il genere, dopo anni di composizioni puramente virtuosistiche, proprio con Schumann era tornato a stabilire un giusto equilibrio tra solista e orchestra. Brahms pensava a qualcosa di più avanzato, riscoprendo nella forma concerto un contenitore in grado di sfruttare le conquiste nate in ambito sinfonico. Ma non aveva il coraggio di avvicinarsi subito
    a un genere così paludato come quello del concerto pianistico. Così nell’aprile del 1854 aggirò il problema cominciando ad abbozzare un lavoro per due pianoforti; poi pensò a una sinfonia; infine decise di farsi coraggio e intraprese la stesura di un concerto per pianoforte e orchestra. Il lavoro fu particolarmente travagliato e solo nel 1858, dopo quattro anni di ripensamenti, il Concerto in re minore arrivò a presentarsi al mondo musicale nella sua veste definitiva.

    La prima esecuzione pubblica avvenne ad Hannover, con Brahms al pianoforte, il 22 gennaio 1859, suscitando una reazione scomposta e infastidita da parte del pubblico. A sconcertare la sala furono le proporzioni monumentali del lavoro, il suo respiro sinfonico e la sua insolita densità di materiale tematico. Schumann era ormai scomparso da tre anni; ma nella scrittura di Brahms restano molte caratteristiche schumanniane: e forse la scelta di inserire in testa al secondo movimento le parole ≪Benedictus qui venit in nomine Domini≫ potrebbe essere interpretata come una dedica al maestro che l’aveva fatto conoscere alla cultura musicale del suo tempo.

     

    Il Concerto op. 15

    La sfida che anima il primo concerto solistico di Brahms consiste nella ricerca di un compromesso tra la forma del concerto e quella della sinfonia. Il progetto era ambizioso; dopo gli intoccabili esempi beethoveniani, le consuetudini del tempo avevano ormai sancito un confine invalicabile tra i due generi. Tentare una via di fuga da quel bipolarismo formale sembrava impossibile. Ma Brahms, proprio sull’esempio del Concerto in la minore di Schumann, voleva provare a confrontarsi con quella sfida. Era solo il primo passo di un lungo percorso che si sarebbe concluso più di vent’anni dopo, con il Secondo concerto per pianoforte e orchestra. Della sinfonia il Concerto op. 15 conserva sicuramente una scrittura orchestrale densa e un’inconsueta attenzione per il contrappunto che si concretizza nel monumentale fugato dell’ultimo movimento. Mentre del concerto restano i temi, idee nate per il pianoforte che sembrano proiettare una luce abbagliante sugli interventi solistici. L’episodio su cui si apre il Maestoso iniziale anticipa già i lineamenti di un respiro formale ampio; poi arriva il pianoforte, con un disegno in mezze tinte, destinato a essere fagocitato dalla drammaticità tellurica del primo tema. L’Adagio fu definito da Brahms stesso un ritratto di Clara Schumann; e una pagina composta, che predilige i toni eterei, ritagliando uno spazio profondamente contemplativo dopo l’impeto del primo movimento. La sequenza di trilli che introduce la coda è un chiaro omaggio a una delle formule più caratteristiche dello stile beethoveniano. L’Allegro ma non troppo finale raggiunge i vertici dell’elaborazione, combinando rondò e sonata in uno schema complesso, in cui trova spazio anche l’astratto accademismo di un episodio in fugato.

     

    Brahms in casa Schumann

    Solo un anno dopo aver incontrato per la prima volta Brahms, Schumann cadeva nel baratro della follia, tentando il suicidio tra le onde del Reno. Per i medici l’unica soluzione era l’internamento in una casa di cura; e così il 4 marzo 1854 Schumann entrava perla prima volta nella clinica di Endenich, tra le pareti che avrebbero imprigionato la sua malattia fino alla morte (1856). Brahms quel giorno era accorso a Dusseldorf, per star vicino ai coniugi Schumann. Clara avrebbe trovato un solido sostegno in quella amichevole presenza, creando le basi per un rapporto destinato a continuare anche dopo la morte di Schumann. Clara era più vecchia di Brahms di quattordici anni, ma tra i due si instauro presto una straordinaria complicità, che col tempo assunse tinte morbose e singolari: una sorta di amore represso, che per tutta la vita rimase imprigionato in una dimensione latente. A volte Brahms nelle sue lettere si lasciava scappare la parola amata; altrove preferiva ribaltare la sensualità su un piano innocuamente materno, chiamando Clara cara mamma.

    Forse l’ombra di Schumann, forse una genetica inettitudine di Brahms ai legami solidi, confinarono per decenni i loro sentimenti in una dimensione platonica.

    ANDREA MA LVANO
    (dagli archivi Rai)

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