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Le tre stimmate di Palmer Eldritch/I due allegri indiani

Recensione - I classici di Millepagine

Le tre stimmate di Palmer Eldritch I due allegri indiani Philip K. Dick Juan Rodolfo Wilcock

di Philip K. Dick/Juan Rodolfo Wilcock


Diversi per mille motivi, dalla nazionalità alla scelta del genere letterario, ma accomunati da un originale approccio narrativo e da un tardivo riconoscimento del loro talento, Philip K. Dick e J. Rodolfo Wilcok sono da anni al centro di rispettivi fenomeni di culto. Entrambi oltretutto sono riusciti, sia pure con notevole ritardo, a mettere d’accordo tutti, tanto la critica quanto il pubblico (e come sappiamo non è un destino riservato a tutti gli scrittori, persino quelli bravi).

Oggi Philip K. Dick è considerato non più un maestro della fantascienza, una definizione apparentemente lusinghiera ma che in realtà suonava beffarda, ma uno dei più grandi autori della narrativa americana del secondo dopoguerra. Negli anni l’editore romano Fanucci – da sempre impegnato nella diffusione del genere fantastico, tanto che è di queste settimane la stampa di “Altri regni”, dell’autorevole scrittore inglese Richard Matheson – ne ha pubblicato l’opera omnia. Qui ripropone “Le tre stimmate di Palmer Eldritch”; pubblicato la prima volta nel 1965 e definito dagli esperti un grande romanzo psichedelico, nel quale una provocatoria meditazione teologica si intreccia con la denuncia politica e sociale. Dick morì nel marzo del 1982 e poco tempo dopo uscì nelle sale il film “Blade Runner”, che il regista Ridley Scott aveva tratto da un altro suo libro, intitolato “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” e scritto al termine degli anni Sessanta. Da allora il cinema ha attinto a piene mani dai romanzi di Dick – da “Atto di forza” a “Minority Report” – rendendolo finalmente immortale.


Invece il piccolo miracolo letterario realizzato dal poeta neoromantico Juan Rodolfo Wilcock (nato nel 1919 a Buenos Aires e poi negli anni Cinquanta trasferitosi a due passi da Roma, a Lubriano, dove morì nel 1978) fu quello di prendere elementi del fantastico e del grottesco – scelte del tutto naturali per chi come lui era cresciuto alla scuola di Borges, e più in generale aveva respirato l’atmosfera della magica tradizione letteraria della sua terra d’origine –  immettendoli, grazie ad una scrittura originale e raffinata, nella prosa italiana. Fu così che creò una lingua tutta sua che nel tempo suscitò l’ammirazione di pochi lettori ma di molti intellettuali italiani, da Elio Pecora a Enzo Siciliano. L’editore Adelphi ha sempre creduto nell’originalità di questo scrittore, compreso e apprezzato solo anni dopo le sue prime pubblicazioni, e ripresenta l’esilarante “I due allegri indiani”; un surreale esercizio di bravura attraverso il quale, dietro la vicenda di un’improbabile rivista, Wilcock compone un ritratto persino demenziale del vivere all’italiana. Il libro si rivela come uno spietato collage sugli usi e i costumi del nostro paese: becero e opportunista, secondo la lente d’ingrandimento dello scrittore. Nonostante la sua disunità, lo stesso l’Italia fu l’approdo del giovane Wilcock quando, nell’estate del 1955, decise di lasciare per sempre l’Argentina, mosso dal disgusto per la politica e deluso da un paese che pure amava. Verificato fosse poco cara, si imbarcò su una nave insieme ad un altrettanto preoccupato Hector Bianciotti, che scelse invece Parigi; dove oggi è risconosciuto come un autore importante, al punto da essere diventato nel 1996 accademico di Francia. Al contrario da noi, dove il suo nome brilla per assenza, si dice Wilcock fosse mal sopportato dal permaloso establishment culturale, che non gli perdonava le invettive scritte nei crudeli raccontini apparsi negli anni su Il Mondo e L’Espresso. Ma lui, quel permaloso e pure un pò provinciale estabilshment, non cessò mai di sbeffeggiarlo.

A cura di Vittorio Castelnuovo
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