Semyon Bychkov: Brahms Concerto doppio op. 102, Renaud e Gautier Capuçon violino e violoncello

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Semyon Bychkov direttore
    Renaud Capuçon violino
    Gautier Capuçon violoncello

     

    Johannes Brahms (1833-1897)
    Concerto in la minore op. 102
    per violino, violoncello e orchestra (1887)
    Allegro
    Andante
    Vivace non troppo

     

    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Già affacciato sull’ultima tranche della produzione brahmsiana, oltre il Secondo concerto per pianoforte (1881) e la Quarta Sinfonia (1885), il Concerto per violino, violoncello e orchestra prese forma nel 1887 come omaggio all’arte di due amici, il violinista Joseph Joachim e il violoncellista Robert Hausmann: una risurrezione tardiva del genere “concertante”, che moltiplica il solista usuale del concerto. Ne erano stati fulgidi esempi la Sinfonia KV 364 per violino e viola di Mozart, un celebre Concerto per due violini di Ludwig Spohr e il Triplo Concerto di Beethoven, che include pianoforte, violino e violoncello.

    La prima esecuzione, avvenuta il 18 ottobre 1887 a Lipsia, ebbe nel pubblico un ascoltatore d’eccezione, Petr Il’ič Čajkovskij, che tuttavia non se ne mostrò particolarmente colpito: dal suo punto di vista, con buon diritto, perche il Doppio concerto op. 102 è esemplare dello stile rarefatto dell’ultima stagione creativa di Brahms, con un radicalismo che al primo ascolto poteva lasciare scettici: come i suoi stessi amici.

    Il primo movimento entra bruscamente in medias res con un motto scultoreo pronunciato da tutta l’orchestra; ma subito si fa strada il violoncello solista, in un’ampia cadenza che ribalta le nostre aspettative e che presto contagia anche il violino: all’orchestra non rimane che tenersi in disparte, come spettatrice, finchè non riesce a innestarsi sul dialogo dei due solisti e a imporre nuovamente il motto d’apertura. Questa volta la perorazione collettiva prosegue senza ostacoli, finchè si intromettono di nuovo i due solisti, rubando la scena; d’ora in poi la struttura del brano vedrà un avvicendarsi regolare dell’orchestra e dei solisti, a blocchi alterni: e il “tutti” avrà una certa tendenziale maestà, quasi a compensare le propensioni divagatorie dei “soli”.

    La seconda idea riparte dalla cellula discendente che ha aperto il movimento e ne dissolve il cipiglio trovando sbocco in un lungo pensiero melodico; poi la voce di un clarinetto che si innalza sulla compagine orchestrale provoca un nuovo estro cantabile, una sorta di berceuse che sfrutta come un pendolo ipnotico le prime note dell’attacco: in questo modo la sintassi interna è garantita, e nello stesso tempo l’evoluzione. L’affinità reciproca delle idee provoca un proliferare di motivi, gli uni scaturiti dagli altri quasi inavvertitamente: come perni conduttori restano il motto, il motivo cullante e - ai due solisti - le fioriture di improvvisazione, tutti variamente combinati fra loro.

    L’Andante si apre con due brevi interiezioni dei corni, che sembrano dare l’imbeccata ai due solisti; questi raccolgono il suggerimento e lo proseguono in un lungo canto all’ottava. Dopo un’interlocuzione orchestrale, un nuovo sgorgo espressivo intreccia le voci solistiche in un iter rapsodico commosso e tuttavia sempre padrone di sé, regolato da costanti simmetrie interne.

    Questo è forse il momento di maggior equilibrio tra i due protagonisti, mentre già all’attacco del Vivace non troppo conclusivo torna a manifestarsi una certa preminenza del violoncello, a cui solitamente spettano le proposte, mentre il timbro più femminile del violino interviene in eco. Scapricciato, almeno quanto l’Andante era composto e intimistico, questo finale fa leva sull’ostinazione ritmica che impregna il primo tema; intorno alla danza bizzarra dei solisti l’orchestra si raccoglie compatta, a tratti persino brusca; anche in questo caso, il fervore ritmico fa zampillare una quantità di idee tematiche, soprattutto nella sezione centrale, che sostituisce lo sviluppo con libere divagazioni. Al fascino della pagina contribuisce non poco l’ambiguità armonica, che fa leva su piccole alterazioni presenti già nella linea del tema principale, e prosegue poi costeggiando abilmente tutto un gruppo di tonalità affini, senza definire nettamente una scelta. Prima di concludere, un’ultima sezione in cui violino e violoncello svettano sull’orchestra in piena liberta copre il posto assegnato per tradizione alla cadenza: di fatto, però, la libertà improvvisatoria dei due solisti è fuoriuscita dai recinti prescritti dalle buone regole e la solida architettura del concerto ne risulta intaccata in più punti, seguendo la via mostrata già dall’ultimo Beethoven e ora proseguita con piena coscienza.

    ELISABETTA FAVA
    (dagli archivi Rai)

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