William Eddins: George Gershwin, Jean-Yves Thibaudet pianoforte

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Jazz Concert

    William Eddins direttore
    Jean-Yves Thibaudet pianoforte

    George Gershwin (1898-1937)
    I got Rhythm Variations, per pianoforte e orchestra
    (revisione di William Schoenfeld)

    George Gershwin
    Concerto in fa, per pianoforte e orchestra
    (revisione di Frank Campbell-Watson)
    Allegro - Alla breve - Moderato cantabile - Allegro molto - Grandioso - Allegro
    Adagio - Andante con moto
    Allegro agitato - Grandioso - Con brio


    George Gershwin
    I got Rhythm Variations, per pianoforte e orchestra
    (revisione di William Schoenfeld)
    Concerto in fa, per pianoforte e orchestra
    (revisione di Frank Campbell-Watson)

    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Le due metà di Gershwin
    La produzione di George Gershwin per certi versi si specchia alla perfezione nel mondo di Broadway. Il musical nella prima metà del Novecento era un genere impossibile da codificare: nasceva dalle ceneri del melodramma, doveva fare i conti con la spettacolarità del cinema, buttava un occhio al jazz e al repertorio leggero, e nei momenti strumentali non doveva dimenticarsi della grande tradizione sinfonica. Non c’erano steccati nell’America musicale di quegli anni; nessuno parlava di contaminazione, semplicemente perché nessuno imponeva rigide demarcazioni tra i generi. Del resto da quelle parti non c’erano stati Bach, Mozart e Beethoven; era naturale che la gente non si scandalizzasse di fronte a commistioni spericolate.

    Gershwin fu l’uomo giusto nel posto giusto. Intanto nacque a New York, la città in cui l’eterogeneità sociale è sempre stata garanzia di contatti imprevedibili tra esperienze artistiche disparate. Ma poi si formò sul pianoforte di Liszt e Chopin senza dimenticare il mondo della musica leggera. Era bianco, ma aveva nel sangue la musica dei neri. Fu uno dei più ricercati song-plugger di tutti i tempi, ma fu anche capace di raccogliere i consensi delle grandi sale da concerto. E il risultato è una produzione che riflette a ogni nota una duplice identità artistica: da una parte il musicista che suonava con la sigaretta in bocca, nato per far impazzire i locali più alla moda di Manhattan, dall’altra il compositore capace di far filtrare tra le pareti del Classicismo viennese una rigenerante ventata di swing. I got Rhythm è una canzone che riflette il lato più scintillante e mondano di Gershwin. Fa parte del musical intitolato Girl Crazy, che racconta la vicenda di un giovane playboy rifugiatosi nel ranch del padre. Il dramma mescola sparatorie tra banditi e scappatelle gaudenti in squallide locande di provincia. Solo una giovane ragazza, timida e fragile come un fiore appena colto, riesce a redimere il playboy dalla sua vita peccaminosa. Sarà lei a conquistare definitivamente il suo cuore in un “americanissimo” finale all’insegna del “chi s’accontenta gode”. Il musical conquistò l’Alvin Theater di New York nel 1930; ma continua a rivivere anche in sala da concerto con i suoi brani più celebri: in I got Rhythm colori e immagini prendono vita in un tema sincopato (interamente giocato su quattro note della scala pentatonica) che riflette tutto lo scintillio di Times Square; e la musica di Gershwin sembra trasformarsi in una pellicola da vedere schioccando le dita a ritmo di swing. L’arrangiamento del brano in programma questa sera si deve a William Schoenfeld.

    Con il Concerto in fa entriamo a stretto contatto con l’altra metà di Gershwin: quella che sapeva rivisitare al ritmo del jazz e del repertorio leggero le forme ampie della tradizione classica. Il lavoro,

    composto nel 1925, è lo specchio di quella cultura profondamente cittadina in cui a dominare è il caos, il ritmo nervoso e indiavolato delle grandi metropoli: quel gusto per l’incrocio tra strade e percorsi affollati, in cui il collettivo vince sull’individuale. Fu lo stesso compositore a dichiarare la natura metropolitana del lavoro, prevedendo un titolo perfettamente esplicito: New York Concerto.

    Solo in un secondo momento, forse su pressione dell’editore, la sua scelta ricadde su un titolo più tradizionale, Concerto in fa, con la chiara intenzione di sottolineare il carattere accademico della pagina: qualcosa in apparente contrasto con il clima più schiettamente descrittivistico della Rapsodia in blu, nata pressoché negli stessi mesi. Per Gershwin, a ventisette anni, era venuto il momento di reclamare un posto tra i grandi della musica colta: un progetto ambizioso per un musicista che sembrava nato per cavalcare gli strumenti della contemporaneità. Ed è per questo motivo che il

    Concerto in fa resta una pagina fascinosamente ambigua, in cui le spinte improvvisative sono a stento arginate da una struttura formale che cerca faticosamente di allinearsi alla tradizione viennese (la forma-concerto di Mozart e Beethoven). Un po’ come se si ballasse il valzer in cima a un grattacielo di Manhattan: una sensazione estasiante, ma profondamente irreale.

     

    La colonna sonora di
    Un americano a Parigi

    I got Rhythm è diventato uno standard del grande repertorio jazz. È stato oggetto di celebri interpretazioni, incise da Fred Astaire, Ella Fitzgerald o Barbra Streisand; e compare in uno dei momenti più memorabili del musical film intitolato Un americano a Parigi: si tratta della scena in cui Jerry Mulligan (Gene Kelly), lo spiantato pittore in cerca di fortuna nella capitale francese, insegna qualche parola di inglese a un gruppo di bambini, muovendosi al ritmo del tip-tap. Sempre nello stesso film è presente il terzo movimento del Concerto in fa per pianoforte e orchestra: il brano compare nel momento in cui il pianista Adam Cook (Oscar

    Levant) sogna, dalla sua misera soffitta, di suonare davanti a un pubblico esaltato; man mano che la visione prende forma, il personaggio immagina se stesso nei panni di tutti gli altri musicisti dell’orchestra (direttore compreso), ma torna alla realtà quando vede che il più entusiasta di tutti gli spettatori coincide ancora una volta con l’immagine di se stesso.

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